Questa storia della candidatura di Renato Soru alle Elezioni Europee mi fa tornare alla mente un aneddoto.
La prima volta che gli ho rivolto – terrorizzato – la parola.
Si narravano strane leggende metropolitane su quell’uomo lì.
Era il 2006 – ero giovinastro e scapestrato – e capitò che nell’annuale seduta congiunta fra Consiglio Regionale e Consiglio delle Autonomie tenni un discorso, assai emozionato. C’è da dire che durante queste sedute i consiglieri regionali se la passano a chiacchierare, a fare telefonate, a giocare con il telefonino o a leggere il giornale. Quella volta al tavolo della Giunta c’era Soru, l’assessore agli EE.LL. e mezza giunta. Mentre parlavo sentivo che stranamente c’era silenzio. Alzai lo sguardo e c’era Soru che mi guardava fisso fisso. Da quel momento il mio panico divenne caghetta.
Come per un miracolo giunsi alla fine del mio intervento che, precauzionalmente, mi ero scritto. Ancora non c’era Fb (almeno io ne ignoravo l’esistenza), Soru viaggiava fra il mitologico e il mistico, io ero uno sconosciuto sindaco di un paese sconosciuto.
Tornai a posto pregando che il mio supplizio finisse il più presto possibile e guadagnassi, così, la porta.
Mi disse un Sindaco mio amico che mi sedeva accanto: “mì che Soru stava sempre annuendo mentre parlavi”. Poi mi si avvicinò uno di quei commessi vestiti da pinguino e mi disse: “il Presidente la vuole incontrare”. E io di rimando voltandomi indietro per vedere se non fosse rivolto a qualcun altro: “a chi? A me?”. Mi alzai e scortato dal pinguino guadagnai il retrobottega.
E c’era quest’uomo alto e smilzo ad attendermi.
Mi disse: “le offro un succo di frutta”. La prima cosa che pensai (ma tacqui): “come ha fatto ad indovinare la mia bevanda preferita?”. Che è detta in senso molto autoironico.
Poi mi disse: “Bortigali, quindi? Vicino a Bolotana”. Io: “No Presidente, Bortigiadas. Vicino ad Aggius”.
Ed iniziò ad interrogarmi su cosa pensassi io dei comuni piccoli, di come era possibile aiutarli, dello spopolamento, di quali politiche si dovessero mettere in campo.
Eravamo appoggiati al bancone di zinco di uno dei bar segreti del Consiglio Regionale.
Io che non contavo un cazzo e l’uomo più potente della Sardegna.
Finì con una stretta di mano. E con la promessa di un “memoriale” che gli spedii sollecitamente il giorno dopo.
Gli ho sempre dato del lei, anche dopo. L’ho chiamato sempre Presidente anche quando non lo era più; è più forte di me.
Ma nelle occasioni che mi è capitato di parlarci non ho mai rinunciato a dire la mia opinione e a cercare di confutare le sue di opinioni quando non le condividevo.
Oggi si assiste a un altro spettacolo. Chi lo adorava ne dice peste e corna.
Chi lo odiava, strumentalmente, ne tesse pubbliche lodi e lo inneggia a salvatore della patria.
Credo, più sommessamente, che non era un Santo prima e non è un mostro adesso. E viceversa.
Forse è più semplicemente l’ultimo politico sardo che aveva, in premessa, tutte le capacità per rivoluzionare davvero la Sardegna. Un po’ c’è riuscito, un po’ no. Come sempre capita a chi ci prova.
Emiliano Deiana