Scena Prima.
Interno giorno. Sassari. Scuola elementare di Via Civitavecchia.
La classe ospita al suo interno una lezione.
La maestra indica agli alunni una lavagna sudicia dalla base arrugginita.
Le prese della luce penzolano dal muro, le pareti sporche, le finestre oscurate dalle grate.
L’ambiente è oppressivo, i bambini della prima appaiono spaesati.

Scena seconda.
Interno giorno. Sassari. Scuola elementare di Via Civitavecchia.
La classe ospita al suo interno una lezione.
La maestra indica agli alunni una lavagna sudicia dalla base arrugginita.
Le prese della luce penzolano dal muro, le pareti sporche, le finestre oscurate dalle grate.
L’ambiente è oppressivo, i bambini della prima appaiono spaesati.

Ecco, adesso vi chiedo: che differenza trovate tra queste due sequenze? Sembrano simili per non dire uguali, eppure non lo sono affatto. Lo so, non è così facile.
Va bene, ve lo dirò.
Ho volutamente tralasciato un particolare che è parte integrante e insostituibile di ogni sceneggiatura: la dimensione temporale.
La prima scena infatti si svolge nel 1969, la seconda nel 2001. La prima vede come protagonista un giovane Andrea, il sottoscritto, durante il suo primo anno di scuola; nell’altra sequenza il protagonista è mio figlio Enrico, ugualmente al suo esordio scolastico. Li separano trent’anni. Un lasso di tempo non trascurabile per qualsiasi essere umano.

Tra quelle due date si è svolta, tra le altre, l’epopea narrata magistralmente dal grande Stanley Kubrick nel celeberrimo cult movie “2001 Odissea nello spazio”, uscito nelle sale di tutto il mondo, appunto, nel lontano 1969. Eppure contrariamente al futuro avveniristico profetizzato dal genio dello statunitense naturalizzato britannico, nella nostra scuola elementare di Sassari di Via Civitavecchia, ottavo Circolo Didattico, quel sostanzioso intervallo sembrava non essere mai trascorso, come se quel futuro fosse stato inghiottito da un gigantesco buco nero, lasciando il posto solo ad una infeconda ellissi temporale. Proprio l’anno in cui Armstrong posava per primo il suo arto inferiore sulla polvere lunare, noi sfigati bambini dell’allora estrema periferia sassarese lottavamo caparbiamente con le imbattibili colonie dei pidocchi che infestavano la nostra precaria base interstellare.

Il comandante Bowman aveva le fattezze gentili di una vecchina dai capelli laccati che odorava di naftalina e trascorreva lo spazio-tempo a enunciare le virtù delle geometriche A di Aiuola e delle panciute D di Dado. Nessuna nuova, intanto, dal futuro. A parte i pidocchi, che nel frattempo si erano organizzati in colonie ancora più resistenti agli umani. Nel frattempo la malefica lavagna retrò continuava a mietere le sue brave vittime, dando occasione ai piccoli feriti di applicare la cattolica virtù della pazienza durante interminabili soste al Pronto Soccorso dell’Ospedale Civile cittadino. L’impianto elettrico della classe del futuro era rimasto tale e quale dal tempo della sua creazione, sfidando le audaci teorie Darwiniane e quelle della fisica quantistica. L’intelligenza artificiale del super computer Hal9000 si scontrava impotente con l’atavica piaga della burocrazia, con il ‘blablabla’ stordente di generazioni di politici abilissimi solo nell’annunciare trionfalmente gli imminenti lavori di ristrutturazione scolastica, ovviamente senza mai darne seguito. I predecessori di quegli stessi amministratori utilizzavano con successo quella pratica oratoria già da allora, generando così una sorta di assuefazione del popolo alle loro menzogne, rassegnato ad assistere allo scempio in religioso e permanente silenzio. Ecco, questo era il film fantascientifico che avevo visto il giorno che mio figlio varcò quella che era stata la mia prima aula di scuola, con gli stessi banchi e le stesse sedie di allora, con la stessa muffa, con le medesime grate alle finestre, con la medesima lavagna fuori norma, con il medesimo impianto elettrico senza alcuna messa a terra.
Solo l’insegnante era diversa, più dimessa dell’altra, definitivamente precaria. Un’epoca di terrore e di incertezza si iniziava a profilare all’orizzonte con l’abbattimento delle Torri Gemelle, mentre in quel remoto plesso scolastico i genitori provvedevano a rifornire a proprie spese la scuola di acqua imbottigliata e di carta igienica. E fu allora che compresi che la nuova guerra sarebbe stata diversa dai conflitti passati ed avrebbe avuto come vittime sacrificali non più noi, bensì i nostri figli, i nostri nipoti, la nuova progenie, i loro poveri silenziosi successori, gli amministrati rassegnati.
Nessuna bomba sarebbe mai esplosa a placare la loro mancata indignazione.
Eppure quella non guerra avrebbe mietuto più vittime di qualunque altra pur senza fare rumore, senza provocare urla strazianti né disseminare cadaveri.
Così, chirurgicamentecome era stato annunciato dai media, l’obiettivo fu centrato.
Finalmente l’istruzione pubblica era stata definitivamente sconfitta. Per sempre.
E tutti loro gioirono facendosi organizzare cortei colorati nell’illusione di avere vinto.
Io intuii quella sciagura già fin da quel remoto 2001, quando pubblicai un articolo mostrandomi offeso per quel degrado, oltraggiato di dover assistere impotente allo scempio a cui andava incontro la scuola cittadina.
Nessuno si unì a me. Tutto attorno fu solo silenzio.
E difatti ad oggi nulla è cambiato da allora. Anzi, parrebbe ancor più silenzioso.
La base interstellare dell’ottavo Circolo di Via Civitavecchia ha interrotto da tempo il suo viaggio e vaga sperduta assieme alle altre misere scuole sassaresi tra le galassie e le nebulose di una dimensione ignota ed irraggiungibile.
Esterno giorno. Sassari. Fine.

Andrea Deiana

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