Esordio al Teatro Verdi (ma da gennaio ci si sposta al nuovo auditorium comunale) con l’opera “La Mosqueta” di Angelo Beolco detto il Ruzante, interpretata da Tullio Solenghi. C’è subito da ammettere che non convince completamente la prova degli attori in scena, a cominciare proprio da Solenghi, che troppe volte si lascia scivolare, specie sul finale della frase, un accento marcatamente genovese che poco o niente ha a che fare con la variante padovana del veneto del testo originale. Testo che proprio per il suo carattere di originalità e unicità della scrittura, utilizza una lingua non come quella che Roberto Alonge nel 2011, definì una “traduzione in veneto comprensibile” ma anzi aderisce così tanto al “verbo padoano” del 500, così carico di inciampi e trappole semantiche frammiste di francese, latino e volgare. La scelta contestabile, e peraltro coraggiosa, è questa troppa corrispondenza col testo, e il carattere morale della vicenda si perde in lunghi monologhi spesso difficili da seguire per intero; il tutto fa sì che al termine del primo atto un congruo numero di spettatori vada via contrariato al suono di borbotti sull’esempio di un altrettanto comprensibile vernacolo, ma questa volta locale: “NoAggiuCumpresuNudda…”.
La Moscheta è stata scritta da Ruzante intorno al 1530. Il titolo si ispira all’espressione “parlar moscheto”, nome dialettale della lingua più raffinata (cittadina) che si contrappone al dialetto contadino padovano in genere usato da Ruzante. A parlar moscheto è proprio il personaggio interpretato da Solenghi, che in una divertente scena si maschera per mettere alla prova la fedeltà della moglie Betìa. La donna, però ha un carattere semplice ma molto intelligente, e compreso il gioco, punisce il marito concedendo i suoi favori a Menato, suo compare.
Accanto a Solenghi recita il pur bravo attore Maurizio Lastrico, allievo del Teatro Stabile di Genova, assunto recentemente alle cronache per curiose e interessanti incursioni cabarettistiche. Lo stesso Solenghi, con ben altro successo, fece parte del mondo del cabaret con quel Trio con la T maiuscola che, assieme ad Anna Marchesini e Massimo Lopez occupò la televisione italiana per alcune fortunatissime stagioni. Solenghi, dopo essere diventato testimonial della compagnia telefonica nazionale e dell’altrettanto nazional popolare caffè, si lamentava del fatto che in tanti anni di teatro non venisse così riconosciuto per la strada come dopo trenta secondi di apparizione televisiva. Questo suo non recente ritorno al teatro per ora non convince, e non basta la fisicità del suo famoso sguardo basito ed attonito nè i suoi scarti fisici in scena per restituire all’opera del Ruzante una prova completa e totale. Accanto ai due più noti attori, recitano Barbara Moselli ed Enzo Paci, anch’essi del Teatro Stabile di Genova. Quest’ultimo, che intepreta un soldato innamorato dell’affascinante Betìa, è forse il più riuscito dei personaggi in scena, è una maschera che, senza il carattere del servo, ricorda a tratti un capitano, altre volte ancora l’arlecchino della Commedia dell’Arte.
La scenografia ammicca all’”edizione dei carri” del più famoso Arlecchino del ‘900, quello di Giorgio Strehler, prima con Marcello Moretti poi con Ferruccio Soleri, con un vero ruscelletto d’acqua che taglia il declivio trasversalmente e nel quale, si dica la verità, durante un gioco di studiate penombre, Betìa fa il bagno. L’unico momento in cui da parte della platea si è avvertita un’autentica attenzione e un palpabile silenzio.
Luca Losito