Sono nata e cresciuta a Monserrato, quartiere popolarmente definito anche la “Montelepre dei ricchi”, quartiere che 30 anni fa era abitato dalla “Sassari per bene”: medici, notai, avvocati, imprenditori. Gente con la puzza sotto il naso che spesso oggi si ritrova con le pezze al culo.
Via Washington è lo stradone che delimita il quartiere popolare da quello “benestante”.
La differenza è ancora oggi davanti agli occhi di tutti: palazzoni con facciate edificate con materiali scadenti e dipinte con colori assurdi quasi a voler evidenziare lo status sociale di chi ci abita.
Nella via due attraversamenti pedonali, con evidenti strisce rosse, separano i più noti “Palazzi Pozzo” che prendono nome dal famoso costruttore.
Via Washington è però anche quella via in cui sono state ubicate le scuole materne ed elementari ed anche la chiesa, che nella nostra infanzia ha svolto un importantissimo ruolo di socializzazione e integrazione tra i due quartieri.
Le nostre classi scolastiche, così come al Catechismo o agli Scout, erano numerose e composte dal figlio di notaio come dall’orfano cresciuto dalla giovanissima sorella col padre in cassaintegrazione; dal figlio del commerciante come il figlio dello spacciatore.
Ma noi eravamo bambini e queste differenze le vediamo solo oggi che siamo adulti.
Perché le differenze sociali sono cose da grandi.
Il bambino divide le persone solo in due categorie: simpatico e antipatico.
Oggi, da adulta, non smetterò mai di ringraziare le mie maestre per una cosa che a 10 anni odiavo perché non ne capivo l’importanza: IL GREMBIULE. Oggi è obbligatorio in qualunque classe, ma 30 – 35 anni fa era quasi solo un indumento per i più abbienti e avevano anche prezzi eccessivi.
Quella divisa che per noi ragazzine, che iniziavamo a guardarci intorno e notare gli sguardi dei ragazzini delle Medie, indicava che eravamo ancora troppo piccole e ci pesava; così come pesava ai compagnetti che volevano assicurarsi un posto in “greffe” di ragazzi un po’ più grandi, perché ne assicurava l’esclusione.
Quel grembiule fuori dalla scuola indicava che eravamo piccoli, ma dentro la scuola indicava che eravamo tutti uguali.
Siamo a cavallo tra gli anni 80 e 90, anni in cui se una donna non indossava una pelliccia di zibellino veniva catalogata come una morta di fame. Anni di opulenza e ostentamento dove dovevi dimostrare di avere più soldi del vicino. Io stessa “sfoggiavo” più o meno inconsapevolmente una ridicola pelliccia ecologica leopardata, sotto lo zainetto rosa di Barbie.
Ringrazio le mie maestre, donne influenzate dalle mode anni 90 con la pelliccia Annabella, per l’insistenza con la quale ci hanno protetti il più possibile dalle disparità, all’interno di un contesto dove c’erano evidenti disparità;
volendo coprire un vestito griffato, che ci veniva comprato e che abbiamo imparato a riconoscere solo alle Scuole Medie, da una tuta consumata che non ci veniva mai cambiata, ma che loro, in quanto adulte, notavano perché l’abito identificava uno status.
Con quel grembiule addosso siamo sempre stati tutti solo compagni di classe e amici, senza distinzione di estrazione sociale. Le ringrazio per aver chiesto alle famiglie, ad ogni inizio di anno scolastico, di contribuire per comprarli a chi non poteva permetterselo, come le ringrazio per averci imposto di lasciare i grembiuli che ci stavano piccoli, alla scuola, e quelli quadrettati della materna da donare ai più piccoli della scuola a fianco.
Oggi sono veramente grata alle mie maestre per ciò che mi hanno insegnato, che non si limita solo al leggere e al far di conto, ma soprattutto ai grandi messaggi di umanità ricevuti. Contestualizzo, perché l’epoca è importante, e le ringrazio ogni giorno che mi affaccio verso Via Washington e sento i bambini ridere e giocare nel cortile di quella che è stata anche la mia scuola.