nella foto: Corrado Giannetti (repertorio)

nella foto: Corrado Giannetti (repertorio)

Ostrovskij secondo De Monticelli

Mi trovo sempre in difficoltà quando devo recensire uno spettacolo dove ci sono persone con le quali ho condiviso anni di palcoscenico. Il rischio di apparire troppo buoni è altissimo. L’errore contrario sarebbe quello di essere gratuitamente spietati per dimostrare un’assoluta imparzialità. C’è poi la presunzione di conoscere già quegli interpreti, di sapere come recitano e quali sono i registri stilistici di ognuno di loro, e non riuscire a definire la loro prova con oggettività.

Al di là della nota personale ho provato davvero ad astrarmi dal vedere in scena delle persone che conosco, con tutte le risate e il lavoro fatto insieme in passato, e concentrarmi esclusivamente sui personaggi.

Ecco perché non ho remore nell’affermare che lo spettacolo messo in scena dal Teatro Stabile della Sardegna ha almeno tre evidenti problemi: il primo, gravissimo, è relativo allo spazio sassarese nel quale, da neanche un mese, la stagione di prosa si svolge. Il nuovo teatro comunale, infatti, visivamente uno scintillante gioiellino, è assolutamente inadatto ad accogliere la prosa. Bisogna urlarlo: NON VA BENE! Spero di essere stato chiaro: non va bene per la prosa classica! Se al teatro Verdi ci si lamentava della troppa distanza tra proscenio e platea in questa nuova sede il problema è amplificato sino all’esasperazione. Dalla linea di sipario corre un ulteriore ribalta di tre metri e poi una semicirconferenza (che presumibilmente funge da golfo mistico) di circa sei metri e mezzo. Un emiciclo, diremmo a Sassari. Per capirci da proscenio al primo spettatore ci sono oltre dodici metri! Se poi consideriamo che la prima scena di LUPI E PECORE si svolge oltre un siparietto al centro del fondale che rappresenta una sorta di portone, immaginate più facile cogliere i pettegolezzi delle signore in ultima fila che le battute degli attori in scena.

Il secondo problema, meno grave ma drammaticamente e non drammaturgicamente urgente, è dato, di riflesso, dalla motivazione degli attori di fronte a un problema tecnico così pesante. In uno spettacolo fatto praticamente tutto di testo non cogliere una battuta può far precipitare nel baratro il patto narrativo. Ma questi ci sentono? – si domanda l’attore continuamente. Pessima atmosfera ma parziale scusante.

Molte, troppe battute si sono perse nel nulla, e chi conosceva il testo provava a suggerirlo ai vicini. Scenetta grottesca di rarissimo squallore.

Per finire, ancor meno grave perché semplicemente una scelta, l’idea registica e l’impianto scenografico. Escludendo alcune proiezioni sul fondale gli attori sono stati inghiottiti dal nero, e non si giustifica una tale cupezza con la presunta drammaticità di un teatro epico, sociale, morale. Anche il peggiore dei fantasmi va fatto vedere per incutere timore, e di questo l’onesto De Monticelli doveva tener presente. Ma c’è dell’altro. La scelta coraggiosissima della mancanza di un’attualizzazione, di una riscrittura, e quella, per contro, di conservare la versione integrale (oltre due ore e mezza di spettacolo) e delle scene minime che però non esprimono minimalismo ma solo freddezza ed una essenzialità non necessaria, a nostro personale e forse sbagliato avviso. Mancava un pizzico di leggerezza, un tocco di quel Nekrosius che ci ha raccontato il teso e gelido teatro russo con semplicità e immediatezza narrativa. Ma queste sono scelte registiche e qui il critico tace, considerato che non è suo il nome sotto la scritta REGIA della locandina.

La storia è shakespearianamente attuale e la scelta di metterla in scena merita un applauso, ma è l’unico spontaneo e sincero: la vecchia Meropa è una tenutaria decaduta che fatica a stare appresso ai creditori. Grazie allo spregiudicato e ambiguo Cugunov orde varie trame per estorcere denaro, soprattutto alla bella ereditiera Kupavina, che è convinta di versare i soldi per una giusta causa. Il tutto grazie ad un nipote di Cugunov, Goreckij, che imita alla perfezione calligrafie e genera false lettere di credito, dichiarazioni, testamenti. Il nipote scapestrato e superficiale di Meropa invece, Apollon, ama solo la lingua francese, la vodka e il suo cane, Tamerlan. In questa vicenda il legalissimo Lynjaev prova a capire chi produce e mette in giro così tanti documenti falsi. All’ignavia e poca intraprendenza di Apollon, Meropa organizza per lui un matrimonio, sotto ricatto, proprio con la Kupavina (le piacerebbe), mentre l’intraprendente Glafira corteggia Lyniaev per interesse e per dimostrare il potere femminile sul genere maschile. A questo punto arriva Berkutov, un vicino possidente che, intuite le potenzialità dei terreni dell’ereditiera, sui quali verrà costruita la ferrovia transiberiana, fa di tutto per acquistarli, sposare la Kupavina e smascherare i giochetti illeciti di Cugunov e Meropa. Anche Lynjaev cade, cede, sposa Glafira con la quale lo attende un destino al guinzaglio. La cosa neanche tanto paradossale è che il destino e il suo conseguente futuro, è negato, poco prima della chiusura del sipario, all’unico che il guinzaglio lo indossa per davvero: il povero Tamerlan verrà sbranato dai lupi, mettendo Apollon di fronte al suo futuro presente, quello dell’età adulta fatta solo di responsabilità. Uno strano e amaro lieto fine che annuncia, appunto, nuovi lupi, ancora più affamati, macabri e voraci. Con un ricorso narrativo carissimo a Gogol, il nome di Berkutov richiama la parola Berkut, l’aquila reale, il rapace per eccellenza, che più del lupo scruta le cose dall’alto, guarda avanti e vola sopra la storia.

Qualche nota sugli attori: Paolo Meloni è perfettamente a suo agio nel personaggio, il suo Cugunov è mellifluo quando occorre e pronto al compromesso in cambio di un pizzico di potere. Corrado Giannetti è un credibile panzone buontempone nella parte del giudice Lynjaev, e a nulla può la sua ricerca di legalità contro le azioni sessualmente illegali di Glafira.

Marco Spiga ha il grande privilegio di essere il primo ad alzare la voce e ridestare la platea dal torpore e dal fastidio dei motori dell’impianto di condizionamento, aiutato da un personaggio come Goreckij, sbruffone e scanzonato quanto basta. Marco è ben inserito anche nella doppia parte, dove racconta, con gesti affettati e sguardo severo, un efficacissimo Berkutov. Elegantissimo. Luigi Tontoranelli è classico e accademico, e costruisce un Apollon fastidioso quanto basta. La sua è una recitazione pulita e presente, senza strascichi, derive o giochetti ruffiani.

Se devi parlar male non parlarne, diceva a Saxa Rubra il buon Vincenzo Mollica. E noi, per concludere, e per non offendere gli onestissimi sforzi delle due giovani attrici, le reputiamo inesistenti. Non indegne di nota, per carità, ma solo rimandate a settembre. Le parti femminili non convincono affatto, e le giovani attrici possono mentire con se stesse o invocare scuse per malanni inesistenti, ma sanno perfettamente della loro rispettiva e assoluta inefficacia in scena. Se si esclude l’esperienza di Maria Grazia Sughi, anche lei appena sottotono nelle due serate sassaresi, alcune intenzioni, moltissimi toni, troppi scarti, erano assolutamente inascoltabili.

L’unico accenno appena divertente, a onor del vero, è un siparietto tra Lynjaev e Glafira, recitato sul divano e appena osato sensualmente, dove Corrado Giannetti dovrebbe far da spalla alla giovane attrice ma si prodiga invece in uno sforzo, riuscito, di tirar su una scena che forse in prova funzionava meglio. Per una commedia definita nella scheda come divertentissima è un po’ pochino, e solo Giannetti non è sufficiente.

Giorgio Strehler diceva che ciò che conta è quel che resta dentro lo spettatore a fine spettacolo. Se pure Ostrovskij aveva un intento morale questo non è assolutamente emerso, e ciò che resta è ben poco di una regia onesta ma incompleta. Agli attori un fortissimo applauso per quanto fatto e per il futuro. Al regista il consiglio, assolutamente immodesto, di leggere Arto Paasilinna e provare a raccontare ancora con la stessa forza e onestà una storia universale come questa.

Un’ultima cosa sullo spazio teatrale: la sala è ben riscaldata prima che lo spettacolo cominci e migliaia di metri cubi d’aria a una temperatura inferiore di almeno dieci gradi investono le prime file di platea all’apertura del sipario. A quel punto è tutto un rindossare cappotti e giubbotti tra commenti a mezza voce che certo non aiutano gli attori in scena. Questa ondata di freschezza andrebbe battezzata, e per questo grato compito cedo la parola a professor Brigaglia, autore di neologismi turritani da antologia.

 

Luca Losito

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