Ho sempre sognato di scrivere un editoriale a cavallo della settimana del festival della canzone italiana e delle elezioni politiche. Potrei giocare a confondermi e dire che tra i politici ci sono pessimi cantanti e alcuni artisti non si sanno proprio amministrare.
Se non fosse stato per il signor Ratzinger che ha annunciato il suo ritiro dalle scene su twitter – così impari a lasciare aperta la connessione – probabilmente mi sarei divertito a giocare accusando di plagio musicale i politici e rifiutando il voto ai cantanti perché “tanto sono tutti uguali”.
Parliamo invece di Sassari City, un giornale nato per occuparsi di cultura, critica e anche satira. Stiamo ricevendo tanti complimenti, che ci fanno certamente piacere, ma alcune voci contro affievoliscono l’entusiasmo dei festeggiamenti. Le nostre bottiglie di champagne vengono stappate sottovoce e i nostri sorrisi non mostrano i denti. Eppure dovremmo esser contenti anche di questo: la critica alla critica, che meraviglioso paradosso!
Non per presunzione, ma ci sembra che la critica, quella autentica, sia latitante e relegata a pochi sconosciuti. Gli altri, quelli dall’alto valore puramente mediatico, son buoni solo a osannare, decantare, innalzare chi invece meriterebbe pesanti accuse sul proprio operato a forza di bastonate semantiche. Ecco perché ci si stupisce, a mio avviso, del nostro modo di fare critica, perché in pochi osano avventurarsi col nostro coraggio e un pizzico di incoscienza, nel panorama della critica giornalistica, almeno a livello italiano. Rifiutando l’idea che l’opera d’arte debba a tutti i costi comunicare qualcosa, portare un messaggio, colpire lo spettatore, mi limito a due brevi citazioni e a voi lettori lascio il piacere di commentarle. La prima:
“Per la critica d’arte sono necessari uomini che dimostrino come è assurdo cercare le idee in un’opera d’arte, uomini che guidino continuamente i lettori nell’infinito labirinto di concatenazioni nel quale consiste l’essenza dell’arte, e verso quelle leggi che servono di base a queste concatenazioni”.
La seconda:
“Le epoche cambiano. Alcune volte fondamentalmente. Proveniamo da un lungo periodo dove l’ideologia pareva forte e per essere tale chiedeva pure di essere stabile, forse perché sapeva di essere diventata ormai sterile. Alla sua stabilità era necessario un pensiero debole, anzi se possibile era auspicabile un vuoto di pensiero. Le epoche cambiano. L’ideologia, per troppa stabilità, ha perso la capcità di essere attraente. E’ diventata uno strumento smussato, è probabile che stia arrugginendo. Se già occorre avere una visione del mondo, e per taluni l’esigenza è vitale, è sicuramente più attraente occuparsi dell’utopia, del non luogo. E torna la sensazione che il pensiero debba esserci, forte, poiché l’utopia è un incrocio tra il sogno e il pensiero, è un sogno realizzato col pensiero. Guai se fosse realizzata sul serio, nella pratica, l’utopia. Tutto ciò sembra evidente nel mondo dell’arte, che nutre sensibiltà nevrili. Non vuole invece essere un’indicazione per i pensatori della politica, tanto meno per gli attori di questa. Perché tutti sanno che i percorsi dell’umanità, le scoperte quanto le guerre, le innovazioni e le catastrofi, hanno ben più a che fare con l’arte che con la politica”.
Tout normal… c’est pas normal.
1) Lev TOLSTOJ, lettera a Nikolaj Strachov;
2) Philippe DAVERIO, Ver Sacrum.
Luca Losito