E’ una Sassari più fredda che mai ad accogliere quest’ultima giornata internazionale della donna, erroneamente chiamata festa della donna. Decido di trascorrere la ricorrenza assieme ad un gruppo di amici con i quali condivido un corso di inglese.
La scelta di violare il rito della tradizionale tavolata tutta al femminile è fortemente voluta da tutti noi. E così sarà.
Il luogo fissato per l’appuntamento è Piazza Castello ed appare desolatamente deserta e silenziosa, la qual cosa non è affatto anomala da quando imperversa la crisi e da quando a questa si è aggiunta la scelta del nostro Comune di impedirvi il traffico delle auto.
Sono le 20.30 e proprio a fianco dell’ingresso del barbacane dell’invisibile castello aragonese si ode solo l’eco delle nostre voci. Uomini e donne di varie età.
Porto arrolotolati sotto gli avambracci dei fogli che tengo rigorosamente celati alla vista dei presenti. Le ampie foglie della palma secolare dondolano sopra le nostre teste nascondendo alla vista per qualche attimo l’avveneristica prospettiva d’un palazzaccio che in questa città definiscono “il grattacielo”.
Mi sforzo di pensare che in realtà la piazza sia stracolma di gente desiderosa di partecipare all’evento, che le panchine siano delle bancarelle straripanti di souvenir, che i piccioni siano un esercito di volontari, che le torri merlate del castello accolgano frotte di turisti.
Quindi alle 21 facciamo tutti insieme il nostro ingresso nel ristorante-pizzeria prescelto, uno dei pochi locali del centro storico che ancora resistono alla tentazione della chiusura.
Una tavolata per quindici è già approntata.
Ci accomodiamo, in ordine sparso. Il tavolo viene invaso da bevande e dall’immancabile carasau.
Decido che è il momento.
Distribuisco ai commensali i miei fogli. Vengono letti. Il tema è scottante: si tratta del problema del femminicidio nel nostro Paese. Quando arrivano le pizze rischiano di freddarsi nei piatti.
Spiego che lo Stato italiano non prevede un censimento per tale tipo di delitto. Sono state centoventisei le donne uccise dagli uomini durante il corso del 2012. Tutti scorrono quei fogli per leggere i nomi, tutti quei nomi, i luoghi, le cause d’ogni singolo omicidio, tutti banalmente simili, tutti accomunati dal medesimo odio che spesso cova tra la banalità di famiglie cosiddette normali.
Quindi decido di divulgare quell’informazioni tra i presenti in sala. La presenza femminile è schiacciante. Cerco di interrompere l’allegro convivio con un elenco inaspettato che al meglio viene rimosso con un sorriso di circostanza. Qualcuna mi chiede se faccio parte di qualche associazione.
Le rispondo di no. Leggo stupore in quel diniego. Confesso di essere un semplice cittadino che si indigna di come lo Stato nel quale vive non protegga, come sarebbe proprio dovere fare, le donne.
E non solo dall’atto più vile ed estremo che l’essere umano possa concepire, bensì in migliaia di stupri inconfessati, in milioni di piccole violenze private, in quintali di offese pubbliche, in incresciosi silenzi istituzionali.
Spiego anche che mi vergogno di vivere in un Paese, che qualcuno s’ostina ancora a definire civile, nel quale nessuna donna possa sedere ancora negli scranni più alti delle istituzioni, delle aziende pubbliche e private, delle fondazioni bancarie.
Cerco di spiegarlo a due coppie attempate che mi guardano come se fossi uno zombie. Uno di loro porta avanti la singolare tesi che “statisticamente cento vittime sono insignificanti”. Come se la morte fosse un evento da comparare ad un esercizio matematico.
Soprassiedo per non diventare sgarbato. Il compare asserisce convinto. Ho una pena profonda per le loro mogli che tacendo gli danno ragione. E sono donne, anch’esse. Donne come quelle centoventisei sfortunate vittime di quel maschilismo strisciante che si camuffa in quelle loro case perbene, tra quella gente normale che la sera della giornata internazionale della donna porta fuori i loro manichini a fingere di essere partecipi alla festa. Alla loro personale ed odiosa festa della donna, appunto.
Forse ho persino capito dove abbia davvero origine la violenza, come conosco l’innumerevole numero di vittime che ancora dovranno sacrificarsi prima di estirpare il germe infecondo dell’ignoranza.
“Sarà per la prossima volta” prometto a me stesso.
E volto le spalle all’indifferenza come se quella non facesse più parte del mondo, come se quelle pizze si stessero divorando esse stesse gli stomaci gonfi dell’ipocrisia, come se l’amaro retrogusto del luppolo evaporasse nella nullità di quel vuoto vanamente umano.
“Sarà per la prossima volta” so che pensano in coro quelle centoventisei lapidi colorate.
E le trovo molto, molto più vive dei loro carnefici. Che sono tra di noi. E ridono. E scherzano.
Facendo maledettamente finta di essere persone normali.

 

Andrea Deiana

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