SATIRA è l’anagramma della parola RISATA. Esatto.
E questo, che si sia trattato di una coincidenza o di una forzatura linguistica voluta, è già di per sè straordinario. E’ una sorta di equazione lessicale, un esperimento riuscitissimo di equità della parola: definire il fenomeno responsabile della nostra ilarità rimescolando le lettere stesse del termine RISATA. Un capolavoro. Un sistema perfetto.
Altri casi di sistemi linguisticamente perfetti si potrebbero avere se anche il termine POLITICO corrispondesse al termine FANNULLONE, se la parola FONDAMENTALISTA corrispondesse al vocabolo IMBECILLE, e così via…
Ma in questo caso, anche interpellando il migliore esperto in anagrammi, non riusciremmo nel nostro intento: le lettere a volte sono insufficienti, inflessibili, e la matematica e le sue regole non perdonano. Anche per questo il linguaggio cambia parallelamente al cambiare dei nostri costumi e della nostra società e certe parole scompaiono, altre mutano, altre ancora modificano, con un processo quasi naturale, il proprio significato originario.
La parola SATIRA invece no.
Fin dai tempi dell’antica Grecia ha mantenuto vivo il suo significato e, cosa più importante, la sua funzione: quella di parlare di noi, dei tempi che viviamo, scuotendo le coscienze verso le ingiustizie, le assurdità del quotidiano, le angherie dei potenti e tutto ciò che di marcio sia talmente radicato nella società da non essere più visibile da occhi normali.
E’ qui che la satira entra in gioco attraverso il punto di vista di chi la esercita; ed è qui che, se la satira funziona, riesce a risvegliare le coscienze, talvolta sollevando polemiche, accuse e scandali.
Scandali, accuse e polemiche che, se nell’antica Grecia portavano alla caduta di buona parte della classe politica ateniese, ai nostri tempi riescono ancora a far venir fuori tutta la nostra indignazione, la nostra rabbia e il nostro sgomento, espresso utilizzando l’arma più comune che abbiamo: i social network. Ed ecco in pochi click venir fuori il sentimento del Popolo2.0: una caterva incalcolabile di parole e di enunciati di varia categoria, di prese di posizione e di indignazione della durata di pochi secondi, da misurarsi con il numero di “mi piace” ricevuti. Una roba da far indignare gli Inti Illimani e il loro Pueblo Unido che Jamàs sera vencido.
In tempi di comunicazioni veloci e indignazioni facili serve ancora uno strumento come la satira, dunque?
Assolutamente si.
E servirà sempre finchè esisteranno dei poteri forti che cercano di esercitare la loro prepotenza; servirà sempre finchè ci saranno delle persone di qualsiasi età, sesso o religione convinte di poter imbracciare un kalashnikov e aprire il fuoco sulla redazione di un giornale satirico; servirà fin quando qualsiasi grande potenza bombarderà piccoli stati dalla parte opposta del mondo per impossessarsi delle proprie risorse; servirà fino a quando tutti, sui social network, sceglieranno di essere “Charlie” e di non esserlo per questo, quello e quell’altro motivo. Servirà fino a quando qualcuno dirà che la redazione di “Charlie Hebdo”, un pochino, se la sia andata a cercare: che certe vignette non si fanno, che Dio non si tocca; ma se la satira è un attacco comico verso i potenti, chi è, al mondo, più potente e soggetto alla satira di Dio?!
Servirà fino a quando un certo moralismo medievale non smetterà di permeare ogni angolo del pensiero e dell’agire comune. Servirà fino a quando ci saranno discriminazioni di qualsiasi tipo. Servirà fino a quando non prenderemo coscienza che per vivere sereni e in pace basterebbe esercitare il nostro diritto più semplice: quello di essere umani.
Per questo la satira serve e ci servirà ancora a lungo.
E proprio per questo fino a quando una sola di queste cose continuerà ad esistere, continueranno ad esistere occhi e bocche in grado di notarle e farle notare. Perchè un mondo visto con gli occhi chiusi sarebbe un mondo al buio. E tutti noi, in fondo, abbiamo una gran paura, del buio.
Michèl Merini