È cominciato tutto a Sassari, in occasione del festival internazionale Ottobre in Poesia: sono salita sul palco del Teatro Civico e ho visto il mondo anche da lì. L’avevo visto tante volte da un oblò, il mondo, ma da un palcoscenico così mai. Da un palcoscenico che scricchiola così… Mi è rimasto impresso quello scricchiolio, sapete? Il rumore del legno sotto i miei piedi, nudi, liberamente nudi, come quelli del presentatore e degli artisti. Per essere meglio in contatto con la terra – ha spiegato Leonardo Onida, introducendo lo spettacolo. Eppure quanta poesia aleggiava a diversi palmi da terra quella sera! Leggera, leggìa. Fra le bocche spalancate del pubblico e gli occhi attenti di tutti e le mani!, le mie mani che giravano pagine di sabbia. Asciutta, bagnata. Piedi ben piantati a terra e mani che raggiungevano il cielo. Un’immagine cara alla filosofia orientale, questa. Uomini come alberi, sintesi di radici e rami. E foglie gialle, marroni. Verdi di salute.
La musica si è fatta sabbia, è diventata materica, palpabile, nello spettacolo presentato da Gabriella Compagnone ed Edoardo Fiorini quel 21 ottobre 2012 a Sassari. Fatto di note soffiate piano nel sassofono di Edoardo, di disegni nella sabbia – asciutta, bagnata – di Gabriella. Raccontavano insieme l’Alice nel paese delle meraviglie, quella di Lewis Carroll, ricordate? L’originale. Originale per origine e per natura.
Così è successo per caso, come per caso Alice incontra il coniglio bianco, con la sua cipolla in mano, mostrandosi da subito per quello che è: rinomato chef del tempo. Così per caso, ho visitato le note di Edoardo Fiorini, sfogliando le sue pagine d’album con la determinazione di colei che è entrata a far parte di uno spettacolo magico e adesso non può più uscirne, non vuole uscirne, quello che vuole è restare lì e diventare anch’essa magia. Un incantesimo di pagine lette dal mio occhio attento, girate dalla mia mano reattiva, mentre con le dita nella sabbia Gabriella disegnava una storia di vita.
Hai mai visto la Tourneuse des Pages? – mi aveva chiesto il poeta Beppe Costa quel pomeriggio, certo ignaro di quello che sarebbe successo poi, anche se non ci giurerei. Si sa quello che si dice dei poeti, no? Che vedono l’invisibile.
Così qualche ora dopo, eccomi sul palcoscenico del Teatro Civico a girare le pagine di uno spettacolo fatto di musica e sabbia. Eccomi a seguire le note di Fiorini cogli occhi e col respiro, in una lunga corsa side to side, ex-aequo, non-chalant, dove non c’erano vinti e non c’erano vincitori. Eravamo già tutti vincitori – in platea, in galleria, sul palco – solo per il fatto di essere ancora vivi.
Pagina dopo pagina, mi sono così ritrovata in una casa dalle porte grandi, immersa in gioie talmente piccine, delicate come scarpe orientali su pavimenti scivolosi eppure così profonde, crepacci diretti al centro della Terra: al cuore. E all’improvviso eccolo il coniglio bianco, col suo orologio di sabbia fra le mani, simbolo di un tempo che va, nonostante tutto, che vola via… e io che ho passato la mia vita a scrivere! Mi sono chiesta, in quel momento, mi sono domandata se non fosse per arrivare lì, che avevo scritto tutti quei chilometri di carta, per vedere il coniglio bianco avvicinarsi e mostrarmi il suo orologio daliliano, ove il reale coincide col surreale, lancette di un cerchio metafisico esperenziale. Scusi che ore sono? È ora che ti cambi e ti prenda le tue meraviglie!
Le mie meraviglie, sì.
Francesca Pirrone