Giulio Andreotti era mio zio. Sembrava proprio impossibile che potesse morire uno come lui.

Solo quando l’ho visto così insolitamente silenzioso dentro quella bara ho realizzato che avesse davvero deciso di morire. Chissà come se la staranno godendo i lettori della rivista satirica “Cuore”, che negli anni novanta votarono all’unanimità “la morte di Giulio Andreotti” come l’evento più desiderato.

Chissà se zio Giulio, ritrovando in quel mondo a noi ignoto il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, gli chiederebbe scusa per non avere presenziato a suo tempo alle sue esequie; in quell’occasione aveva motivato l’assenza con la famosa frase“…ai funerali preferisco i battesimi”.

Qualcuno interpretò con cattiveria la battuta giustificandola con la sua predilezione verso i riti iniziatici, che qualche problema gli avrebbero causato in seguito, seppure attutiti dall’italico istituto giuridico della prescrizione. Lui era fatto così.

Chissà se in quel mondo parallelo chiederebbe perdono per l’ossessione del potere che lo guidò per tutta l’esistenza.

I suoi detrattori, e purtroppo sono ahimè tanti, ricordano che amava definirsi “un uomo medio”, forse a causa dell’astuzia insita proprio nell’italiano comune e nel quale egli tendeva ad identificarsi. Andava a messa tutti i giorni, faceva la questua e si confessava: un uomo così probo non può che essere andato in Paradiso.

Le quasi quindici milioni di voci correlate su Google lo pongono ai vertici tra i personaggi politici del Paese più ricercati sul web, mentre le sue settanta primavere trascorse tra gli scranni dei vari Palazzi romani gli assicurano un posto di assoluto prestigio tra i mantenuti più longevi della Storia.

Senza uno zio così influente la mia vita sarebbe stata certamente peggiore, a cominciare dalle scuole dove con un simile cognome nessun insegnante provò mai a limitare il mio ardore adolescenziale con richiami di alcun genere. Nel lavoro poi fu una cavalcata addirittura trionfale, a causa dei troppi favori che i

dirigenti di turno dovevano allo zio Giulio, per cui la mia ascesa ai vertici dell’azienda municipalizzata che presiedo fu priva del benché minimo ostacolo.

A lui va il merito di avere creato il sistema della raccomandazione, che definiva orgogliosamente “un esempio di efficienza al servizio della collettività”.

Io come altre centinaia di migliaia di persone dobbiamo tutto a quella felice intuizione, che ha reso l’Italia un Paese all’avanguardia nel mondo e di cui dovremmo tutti andarne fieri.

Era una persona geniale zio Giulio, buona e competente.

Mi ha fatto male sentire tutti quei fischi durante il minuto di raccoglimento alla sua memoria deciso dalla Figc all’inizio delle partite del campionato italiano di calcio: so che lui non se ne sarebbe curato e avrebbe risposto con la sua solita battuta di alleggerimento.

Ricordo con profondo rammarico i processi per mafia nei quali fu coinvolto ed ai quali mai si sottrasse, partecipando a tutte le udienze, difendendosi personalmente e dimostrando la propria estraneità (sebbene qualche maligno ancora insista nel ricordare che fu condannato per partecipazione in associazione a delinquere precedentemente al 1980, ma che beneficiò della prescrizione).

Qualunque sarà la prossima Italia, non potrà che fare i conti con quella laicamente religiosa, onestamente mafiosa, architettata dai padri fondatori, tra i quali un posto di riguardo spetta di diritto al grande Giulio Andreotti. Amen.

 

Andrea Deiana

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